La Napoli che verrà nella lezione di Paolo Frascani

Nella Napoli che si risveglia dal letargo imposto dal COVID, le danze per la successione a Palazzo San Giacomo sono già cominciate. A dare fuoco alle polveri dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno è stato Francesco Nicodemo, ex golden boy della comunicazione renziana, ora libero professionista nonché libero pensatore, al pari di Sergio Locoratolo, che raccoglie idealmente la provocazione sull’edizione locale de La Repubblica.

Il senso di ambedue le riflessioni è chiaro: può un Sindaco in scadenza (e senza possibilità di ricandidarsi) amministrare Napoli, essendo al contempo eternamente in rotta con Regione Campania e Governo nazionale? La terza città d’Italia, a breve, dovrà fronteggiare la più grave crisi del Dopoguerra, e per farvi fronte sarà anche privata del propellente più importante degli ultimi anni, ossia il turismo. Servono idee e forze nuove, un’onda di energia che consenta di governare la precaria barca del Comune nei mari della tempesta post-Coronavirus. Dunque, non sarebbe meglio andare ad elezione in autunno, contestualmente ad altre elezioni amministrative nei Comuni limitrofi ed alle regionali campane?

Elezioni, ma con quale idea di futuro?

Presentata così, al netto di tutte le variabili politiche, sembra una posizione di buon senso. Eppure, la domanda parrebbe sorgere spontanea: elezioni per far cosa? Nel senso: qual è una visione di futuro di cui, ragionevolmente, la città può dotarsi, e che la nuova classe politica dovrebbe portare in dote ai cittadini? Infatti, la grande assente di questi anni è stata proprio la proiezione sul domani. Eternamente abbarbicata nella difficilissima gestione del presente, all’attuale amministrazione è venuto a mancare l’afflato programmatorio… qualora fosse stato mai presente.

Il governo di coalizione (nei fatti) della città – con giunta e consiglio, nonché municipalità, divise fra tante, troppe anime – ha fatto sì che ogni assessorato remasse nella propria direzione. Nel silenzio generale coperto dalla pittoresca “ammuina” elevata a folklore turistico, ognuno ha curato il proprio orticello: il risultato è un mosaico di iniziative scollegate, che ovviamente portano a problemi irrisolti. Come raccontato lo scorso novembre, i settori dove più si è accusata l’assenza di una visione del futuro sono, ironicamente, proprio quelli in cui, pur con tante difficoltà, qualche anno fa si era tracciata una strada ben precisa, vale a dire l’urbanistica ed i trasporti.

Tuttavia, se qualcosa ci insegnano le moderne scienze sociali, è che spazi urbani e mobilità non sono da trattare in modo scollegato rispetto alla sociologia e la storia di una città. Perciò, come immaginare la Napoli del post-Coronavirus? Partendo da una cosa semplice: studiare. Cosa non scontata nella moltiplicazione delle fonti e delle sollecitazioni, in cui l’iper-specializzazione su un tema può comportare l’insorgere del benaltrismo, ossia l’atteggiamento d’elusione di un problema sostenendo che ce ne sono altri, più gravi, da affrontare. Difficile, dunque, uscire dal circolo vizioso della difficoltà sul momento più pressante in una città eternamente in emergenza, o inquadrare l’angolatura giusta da cui partire per tentare di risollevare Napoli.

La lezione di Paolo Frascani e del suo “Napoli. Viaggio nella città reale

In questo frammentato quanto difficile panorama, nella “cassetta degli attrezzi” della politica cittadina non dovrebbe mancare un’analisi complessiva della città, quale è “Napoli. Viaggio nella città reale” (Editori Laterza, 2017) di Paolo Frascani, professore emerito di Storia all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. E’ uno strumento agile (200 pagine), ma straordinariamente completo, che traccia con la precisione di un volo d’uccello quanto successo negli ultimi trent’anni. Lo stesso Frascani, con due recenti interventi sulle pagine de La Repubblica il 18 aprile e l’11 maggio, ha aggiornato il suo testo all’epoca post-COVID, immaginando lo “skyline di una città inclusiva di funzioni, modelli di produzione, esperienze innovative sul piano tecnologico”.

In questo senso, le contraddizioni esplose nell’Italia del Coronavirus rappresentano una congiuntura importante: se il testo del 2017 partiva dal presupposto storico di un ridimensionamento politico del Mezzogiorno a favore del Nord con l’affermarsi della Lega e del primo Berlusconi (pag. 17), quanto avvenuto in questi mesi offre l’occasione di rovesciare il tavolo, dove Napoli e la Campania possono riacquistare un ruolo fondamentale. Per farlo, però, è importante avere ben ferme nella mente alcune sue caratteristiche, tracciate con precisione chirurgica dalla penna di Frascani: come cambiano i luoghi deputati alle decisioni con il rafforzarsi di Comune e Regione (pag. 50); i mutamenti della classe politica, con livelli d’istruzione più bassi ma con una provenienza da esperienze condivise da varie anime della società civile (pag. 17), e l’eterno problema del rapporto fra politica e imprenditoria, che in certi passaggi ha prodotto un regime vincolistico che ha portato alla paralisi di operazioni come Bagnoli, senza però frenare l’abusivismo diffuso in città (pag. 29).

Urbanistica e proiezione sul futuro: le grandi assenti degli ultimi anni

Il passaggio su Bagnoli, vera prospettiva mancata degli ultimi trent’anni partenopei, ritorna più volte nelle riflessioni di Frascani, e non casualmente. Infatti, è l’esempio perfetto di quanto la programmazione urbanistica sia fondamentale nel disegno di una città, da cui poi dipendono le scelte di politica industriale, economica, abitativa, e dunque sociale. Questione che Giuseppe D’Avanzo sintetizzava nel 2006 con “l’intera città si è fatta lazzara, la plebe ha vinto”, e che Frascani indica nel senso di spaesamento, di “stranieri a casa propria” che tanti cittadini perbene giornalmente vivono, stretti nell’equilibrio sociale che si è rotto in quartieri periferici dove spesso non c’è nulla (pag. 56-57). Periferie che confinano con l’immensa Città Metropolitana, un soggetto rimosso dal dibattito politico corrente e dimenticato dagli stessi mezzi di comunicazione, ma che tanto influisce, o perlomeno dovrebbe influire, nelle scelte del Capoluogo, se è vero che quotidianamente per motivi di lavoro ad ogni cittadino che esce dal Comune ne corrispondono sei che vi entrano dalla provincia.

Appare chiaro quanto enorme sia la pressione antropica cui Napoli è sottoposta, e da qui, nuovamente, l’importanza che l’urbanistica dovrebbe riacquistare nelle scelte della politica, attraverso il governo dello spazio urbano come regime simbolico riformista, e la legalità (reale, non vuotamente declamata) come cardine dell’agire politico-amministrativo (pag. 21). Tuttavia, non si può intervenire sul tessuto urbano prescindendo dall’evoluzione dell’identità professionale e culturale dei suoi abitanti (pag. 44). Pertanto, è preziosa la ricostruzione della Napoli del folklore, da Gomorra a Lucky Ladies, da Nanni Loy a Paolo Sorrentino, che ne cambia, soprattutto, l’immagine che percepiamo e il modo di rappresentarla, mentre i nodi della sua condizione urbana rimangono irrisolti, in un contesto in cui manca una vera mobilità residenziale (pag. 55), soprattutto fra i più giovani.

Università e turismo, quando l’eccezione non diventa regola

In questo contesto, pesante è l’atto d’accusa al sistema universitario, principale centro d’occupazione dei cosiddetti “colletti bianchi”, eppure riluttante a confrontarsi con i problemi e le esigenze della popolazione studentesca, incapace di reinventarsi organizzativamente e culturalmente (pag. 62), di fare sistema e coordinamento, nonché di evitare inutili duplicazioni di facoltà di diverse università, spesso poste a poche centinaia di metri l’una dall’altra. Un ritardo che si rispecchia nell’immagine civile e culturale della città borghese, alterata dal rarefarsi delle energie intellettuali che, in passato, ne avevano favorito lo sviluppo culturale e civile (pag. 63). A colmare questo gap non basta il tanto decantato polo di San Giovanni, soprattutto se questo resta slegato dalla realtà di un quartiere ormai divenuto una “Pompei industriale”.

Lo scenario fin qui tracciato rende chiaro perché Napoli si sia aggrappata al turismo, unico propellente degli ultimi anni, benedetto da scelte trasportistiche e tecnologiche che però si sono svolte altrove: l’alta velocità che ha a Napoli il suo vero terminale è una scelta nazionale che si dipana su un orizzonte di trent’anni; l’esplosione delle low-cost, sapientemente intercettata da un aeroporto privatizzato nel 1997 (unico caso in Italia); l’affermarsi di piattaforme quali Airbnb, che hanno fagocitato l’offerta abitativa per studenti e residenti, soprattutto più giovani; la creazione di portali, quali TripAdvisor, che valorizzano la ristorazione di qualità, scatenando una competizione senza quartiere come mai si era visto in questo settore. Tutte scelte globalizzate e globalizzanti, che Napoli ha subito, senza mai provare realmente a guidare, lasciando ampi spazi ad un’economia spesso sommersa. Un qualcosa che ora presenta il suo conto: infatti, il turismo è segnato dall’incidenza di variabili imprevedibili legate al quadro internazionale, e questi mesi di lockdown lo hanno tristemente ricordato.

La necessità di una città aperta e l’importanza dei trasporti

Già prima del Coronavirus, però, la città si era chiusa nella triangolazione tra il Centro Storico, Pompei e le isole del Golfo. Una scelta che ha mostrato i suoi limiti, e che riporta in auge il tema di allargare, e non restringere, i confini di un’area urbana già così densamente popolata in poco relativo spazio. In questo senso, l’unico elemento dirompente nella recente storia cittadina, che rimescola le carte fra quartieri borghesi e quartieri anonimi, che avvicina il centro alla periferia e crea coesione sociale, è la metropolitana, in particolare la Linea 1, che cambia la mobilità dei cittadini, ridefinendo la graduatoria delle valutazioni immobiliari delle abitazioni, che all’improvviso diventano sensibili all’eventuale dislocazione vicino a fermate della rete su ferro (pag. 59).

Si ritorna, infine, al punto di partenza, ossia all’importanza della programmazione urbanistica, di cui un’efficiente rete di trasporto rappresenta le ideali vene di un corpo che è la città. Quest’ultima decade ha visto la programmazione trasportistica in colpevole ritardo, dissipando un patrimonio di progettazione che si era accumulato durante le precedenti giunte comunali, e che in questi anni avrebbe dovuto cominciare a rilasciare i propri benefici effetti sul territorio. Invece, chi governerà la Napoli del domani dovrà ricominciare non dai cantieri, ma spesso addirittura da cassetti da troppo tempo colpevolmente chiusi, ancora pieni di carte e progetti. Se però sulla scrivania dei futuri amministratori vi sarà anche il testo di Frascani, districarsi in quell’affascinante labirinto di pensieri sulla Napoli che verrà sarà certamente più facile.

Rispondi