Nella nuova estetica di Napoli, il giovanissimo Ciro Pipoli (classe ‘96) ha un ruolo centrale. Le sue foto, diffuse da un profilo Instagram da quasi 200.000 follower, sono diventate la quintessenza di una città che vive un’indubbia primavera di apertura verso il mondo. Con già un “coffe-table book” all’attivo (Ciro, a cura di Stefano Ferrara e Franz Albano per Cesar1), lo sguardo di Pipoli si sta spostando dai partenopei nella propria città a quelli in giro per il mondo attraverso una mini-collana di tre volumi (edizioni NSS), il primo dei quali dedicato ai napoletani in Argentina. Ne ho parlato con lui sabato 26 aprile 2025 sulle pagine de Il Riformista.
Lei è appena tornato da Buenos Aires. Come mai questa meta?
C’è un dato che mi ha fatto molto riflettere: grazie all’emigrazione, in alcune città del mondo vi sono più partenopei che a Napoli stessa. Un paradosso affascinante. Quindi, ho pensato ad un progetto fotografico che ritraesse i napoletani, o i loro discendenti, in tre città iconiche della contemporaneità: Buenos Aires, San Paolo e New York. Non potevo che cominciare dall’Argentina.
Perché, e che taglio ha dato a questa prima tappa?
Il motivo è chiaro: Maradona. Anche quando non volevo parlare di lui, era il principale argomento appena dicevo d’essere napoletano. C’è una connessione fortissima con Diego – e quindi con Napoli. Questo mi ha permesso di entrare subito in grande empatia con chi incontravo, vivendo esperienze più autentiche, non turistiche.
Ad esempio?
Il calcio. Sono potuto andare nei settori “popular” degli stadi, generalmente aperti solo a chi è del luogo. Un’esperienza intensa. Ho visto partite del Boca, del San Lorenzo, passando dal primo club di Diego (l’Argentino Junior) all’ultimo da lui allenato, il Gymnasia Plata.
L’altro grande argentino è Papa Francesco.
Rispetto all’Italia il rapporto con la fede è molto più presente, quotidiano. Anche nei giovani. Molti tifosi pregano prima di ogni partita, le strade sono piene di murales richiamanti Gesù, in tanti indossano un rosario. Da noi la secolarizzazione è più evidente, la fede non interessa più la mia generazione.
Quali tratti in comune con Napoli ha riscontrato?
Si vive letteralmente per strada, che è vibrante di persone del luogo, di bambini che giocano a calcio. Il patriottismo è molto forte: gli argentini si considerano tali, noi invece ci dividiamo fra città che vengono prima della nazione. Un senso di comunità ancor più marcato nella comunità di immigrati. Chi arrivava in Argentina sbarcava in un paese sconosciuto, senza alcuna rete di supporto. Si sono uniti per farsi forza, e oggi i discendenti di quell’emigrazione si ritrovano in associazioni mutuali come “Napoli Eterna”, che ho visitato.
Cosa importerebbe dall’Argentina?
La capacità di dar valore a sé stessi: la situazione economica lì non è facile, ma lottano, protestano per i loro diritti. La politica non è materia d’interesse solo per gli anziani come da noi, ma anche dei giovani. Questo perché non vogliono emigrare dal Paese. Soffrono al pensiero di lasciare l’Argentina, concetto che si lega al patriottismo – a differenza di noi che patiamo solo se lasciamo Napoli.
Una foto simbolo di questo viaggio.
Un padre con il figlio neonato allo stadio. Lì il senso di comunità si esprime al massimo, sono luoghi di ritrovo per intere famiglie. Un altro aspetto che sarebbe bello importare nella nostra città.