Il 2 dicembre 1993 Pablo Escobar, il più noto criminale della storia moderna, viene ucciso dalla polizia a Medellín, la seconda città della Colombia a cui ha legato per sempre il suo nome fondando il famoso Cartello, per l’appunto, di Medellín. Cambiando per sempre le logiche del narcotraffico. Ne ho parlato giovedì 29 agosto sulle pagine de Il Riformista.
Medellín: un passato di violenza, che si cerca di contrastare
Oggi nessuno per le strade della città ha piacere nel ricordare quella tragica stagione. Le inaccessibili favelas che la sovrastano (2,5 milioni di persone per circa 6.700 abitanti per km2) sono state per anni le roccaforti della criminalità. Destino comune a tutte le megalopoli afflitte dai cosiddetti slums: fenomeno geografico, economico, sociale che investe Rio de Janeiro, Bogotà, Caracas, La Paz, e tante altre.
Tuttavia, nella città simbolo della droga si è provato a scrivere una storia diversa, in parte riuscendoci. Nel 2013, a vent’anni esatti dalla morte di Escobar, Medellín è stata indicata dall’Urban Land Institute di Washington come “città dell’anno” in una lista di oltre 200 centri abitati in giro per il mondo. La differenza l’ha fatta la buona politica che ha guidato una trasformazione impressionante in soli due decadi. Risultato ottenuto principalmente cercando di rompere proprio quel che aveva fatto delle baraccopoli le roccaforti di Escobar: il loro essere inaccessibili. Puntando sulla coesione territoriale che porta alla coesione economica, e dunque sociale.
Rompere l’isolazionismo delle favelas col trasporto pubblico
Lo strumento principe di queste scelte è stato il trasporto pubblico. Una rete di sei funivie urbane che si arrampicano lungo le favelas adagiate sui monti che circondano il centro della città, facendo così da adduzione alle due linee di metropolitana, tre di BRT (bus rapid transit) e ad una tranvia. Il tutto per rompere l’isolazionismo dei ghetti, creando fra i vari quartieri una sana circolazione di persone, idee, lavoro. L’impatto con questo complesso sistema di trasporto pubblico è impressionante: stazioni frequentatissime ma immacolate, banchine con sistemi d’informazione che segnano i tempi d’attesa e lo stato del servizio di tutte le tipologie di linee avvisando su eventuali disservizi – segno che si concepiscono le diverse modalità di trasporto come un unico sistema interconnesso. Una comunicazione coordinata che si completa con mappe e indicazioni ben comprensibili da qualunque livello d’istruzione.
Tuttavia, è quando si sale a bordo delle funivie che si tocca con mano l’impresa eccezionale che si è realizzata a Medellín. Le cabine sorvolano un mare di baracche che si arrampicano su colline sempre più ripide. Muoversi fra le case sarebbe impossibile per qualunque mezzo più grande di un motorino. Invece, sulle funivie è un continuo viavai di persone grazie alle frequenti fermate – anch’esse tenute benissimo. L’esempio per eccellenza del recupero sociale che una capillare rete di trasporto pubblico può innescare è il quartiere di San Javier, noto come Comuna 13, con una popolazione di ben 160.000 abitanti. Un passato di violenza e narcotraffico, un presente ancora difficile ma anche luogo di riscatto sociale con una vibrante comunità artistica che trova la sua massima espressione nei murales, principale meta turistica. Ciò è stato reso possibile anche da una rete di scale mobili urbane che permettono di arrampicarsi in punti dove perfino le cabine farebbero fatica a giungere, oltre ad investimenti in luoghi di aggregazione come biblioteche e parchi pubblici. Tutto studiato negli anni per invertire una narrazione che identificava la Comuna come il fortino di Escobar.
Un caso di studio replicato in altre città
Vi è una letteratura consolidata sul caso di Medellín, promossa soprattutto dalla Banca Interamericana di Sviluppo. Si va dagli studi di Magdalena Cerda della New York University su come una migliore accessibilità dei quartieri riduca la violenza (in particolare omicidi), o quelli di Nora Libertun da Harvard che rileva la migliore salute degli abitanti delle favelas in cui si sono ridotte le distanze fisiche fra i quartieri – e quindi verso strutture di cura migliori. Tuttavia, le evidenze empiriche più immediate arrivano dalla voce degli abitanti, di chi prima impiegava oltre due ore per arrivare al centro della città e ora ci mette un quarto del tempo potendo così avere accesso a migliori opportunità di studio e/o lavoro e dunque a un destino diverso, non necessariamente di marginalizzazione che può comportare l’avvicinarsi alla criminalità.
Altre città hanno seguito l’esempio di Medellín, cercando di replicare la soluzione delle cabinovie per rompere l’isolamento delle favelas. In primis la capitale colombiana Bogotà per raggiungere il distretto di Ciudad Bolivar, che con i suoi 600.000 abitanti è uno dei più grandi slum al mondo. Dal 2010 a Caracas funzionano due linee che permettono agli abitanti di San Agustin, quartiere di 50.000 anime considerato fra i più pericolosi della capitale venezuelana, di raggiungere in pochi minuti il centro città interscambiando con la metropolitana. Lo stesso avviene con il Mexicable, che collega due Comuni dell’area metropolitana di Città del Messico e garantisce l’accesso alle linee di BRT. A La Paz si è invece andati oltre: una rete di 10 cabinovie copre l’intera capitale della Bolivia, estendendosi fino alla vicina città di El Alto.
Vi sono anche casi negativi: Rio de Janeiro ha realizzato due funivie in occasione delle Olimpiadi del 2016. Entrambe ferme dopo pochi mesi di operatività. Una di recente è stata riaperta e garantisce di nuovo il collegamento con Providencia, la più antica favelas del Brasile fondata alla fine dell’Ottocento. La teleferica di Alemão è invece ancora chiusa, lasciando nell’isolamento oltre 70.000 abitanti. Il risultato negativo di Rio, secondo Mariana Dias Simpson dell’University College di Londra, si ascrive al mancato coinvolgimento della popolazione nel processo di costruzione della teleferica, nota invece caratterizzante del progetto di Medellín.
Un esempio valido anche per l’Italia
Una lezione che dovrebbe valere anche per l’Italia: ascoltare gli abitanti delle tante periferie del Paese per migliorarne la mobilità. Il trasporto pubblico nostrano è spesso un inferno in città che hanno bisogno di essere più larghe, e che invece servizi inefficienti rendono sempre più piccole – dunque classiste. Per far ciò spesso ci si riferisce a buone pratiche di altri Stati europei, comparando situazioni troppo differenti. Non ha senso aspirare a Berlino o Stoccolma se non si ha la stessa capacità di spesa, la stessa qualità dell’urbanistica, o anche solo lo stesso senso della cosa pubblica.
Gli amministratori locali dovrebbero avere l’onestà intellettuale di riconoscere che vaste aree delle maggiori città da Roma in giù hanno condizioni socioeconomiche simili ad alcune realtà del Sud America, e lì cercare soluzioni. Lo stesso a livello accademico dove il più delle volte si trattano con sufficienza le conclusioni di studi urbani e sociali che arrivano da quelle regioni del mondo, perseguendo una retorica autoreferenziale dell’eccellenza nostrana che invece qualunque statistica sulle università fa fatica a rilevare.
La politica decide, i tecnici eseguono
Tutto si riconduce a un tema di prospettiva politica. Le infrastrutture migliorano la vita delle comunità: nelle strade di Medellin, Rio, Bogotà vengono salutate come una benedizione. In Italia sono una clava usata in scontri di parte che paralizzano le scelte, accolte con scetticismo da una popolazione disabituata ad amministrazioni che portano a compimento quanto promesso. Non è un caso che siano davvero pochi i casi negli ultimi anni di un buon trasporto pubblico, fatta salva l’eccezione di Milano.
Qualcosa sta lentamente cambiando con progetti a Roma, Napoli, Palermo. Servono però prospettive di lungo periodo che solo una politica lungimirante può dare. Invece, quest’ultima delega spesso le decisioni al professore di turno. E’ bene però ricordare che i tecnici eseguono ciò che il decisore pubblico dispone, avendo il mandato degli elettori per farlo. Per scelte di qualità avrebbe senso affacciarsi a un mondo nuovo, fatto di megalopoli dove si prova a dare un futuro migliore a milioni di persone. Un futuro di cui anche l’Italia ha fame.